Caterina Galizia Così vanno le cose sulla terra

…Proprio all’inizio del libro, dopo il prologo narrativo, si legge: “Ora che la distanza / si fa corpo / al bivio dell’alba / il sentiero scompare. / Occorre dapprima / seguire un respiro affannoso / In seguito / apparirà evidente / che la città non è raggiungibile / neppure per via d’aria. / Messa così / come fai a rimediare? / Prova / con un messaggio a nuvola / che superi / le dita intorpidite, / le trappole di fiato / della voce”. Ci si chiede, leggendo, dove il viaggio porterà. Se la città sarà raggiunta. Se il “messaggio a nuvola” sarà efficace. Ma Galizia non ci chiede che il suo libro di poesie sia interpretato: lo espone come un trattato di speranza nell’uomo, trascritto in una lingua misteriosa ma semplice…

Provò a mettersi seduta ma perché la testa non andasse a sbattere contro il soffitto dovette schiacciare il mento contro il petto. I grandi, sotto, dormivano ammucchiati sui sedili di legno. Si mise a pancia in giù per poter almeno vedere un pezzo di finestrino oltre la porta dello scompartimento. Correvano lontani i monti viola, appannati dall’umido dell’afa (o era invece l’effetto della condensa di tutti quei fiati sul vetro?) Per il mare bisognava attendere, lo sapeva. Era dall’altra parte, sotto di lei, nascosto. Il ritmo delle rotaie la ributtò nel sonno. E lì, invece, finalmente lo vide, staffilato dai raggi dell’alba, e lo sentì, subito profondo e fresco, turchese e fresco, fino alla riga dello strapiombo blu. La teneva su forte, tanto che lei sott’acqua non riusciva ad andare e la cullava di onde lunghe e leggere, dal risvolto spolverato di bianco. Una un pochino più alta la girò verso la spiaggia: la distesa era bionda, enorme, ondulata, con l’aria che, tremolando sul fondo, faceva vibrare la parete di gelsomini che proteggeva la città degli dei. Al centro degli scavi, poco distante da quello che rimaneva del tempio, issato su un terrapieno, c’era un fico. I frutti che faceva erano sacri e dolcissimi. Tese la mano per prenderne uno.